VINO & TRADIZIONE

18 lug

VINO & TRADIZIONE

IL MOSTO COTTO E IL DESIDERIO DELLA NEVE.

Si era nel pieno della vendemmia, ma quell’odore inconfondibile del mosto che bolliva nella grande pentola di rame suscitava nei bambini il desiderio della neve. La placida gioia di vederla cadere lenta sopra ogni cosa, la pazza voglia di immergersi in quel bianco candore, di giocare e di realizzare il pupazzo più grande, i pomeriggi da trascorrere al caldo del camino, ascoltando le belle storie dei nonni e assaporando tutto il gusto «d’ ‘a sbbre’tta». Un gelato fatto in casa, utilizzando semplicemente la neve e «r’ vin cuott», quel denso liquido che veniva preziosamente custodito tra i ripiani di legno tarlato della grande credenza che dominava la sala da pranzo.
Il mosto cotto non mancava mai nella povera dispensa delle famiglie dei viticoltori castelveneresi. Serviva soprattutto a sostituire lo zucchero, in particolar modo quando questo prodotto diventava quasi introvabile. Le massaie lo utilizzavano in cucina anche per addolcire le carni o correggere l’acidità di alcuni cibi, a partire dalle passate di pomodoro. Nei campi dava refrigerio durante le calde e afose giornate estive, quando veniva servito diluito con acqua e con l’aggiunta di qualche goccia di succo di limone.
Ma per i bambini, d’inverno, l’ora più attesa scoccava quando il bottiglione di colore verde smeraldo finiva in tavola per dare vita al rituale della preparazione di quel sorbetto artigianale. Allora, quasi per magia, la mente ritornava a quella giornata di inizio autunno, con la mamma e la nonna intente a preparare il mostro cotto. Tutto procedeva secondo una ricetta che si tramandava da madre in figlia. Il mosto crudo si poneva nell’immenso recipiente, che veniva posizionato sul fuoco. Mamma e nonna, con la grande cucchiaia di legno e con la schiumarola, si alternavano nella continua operazione di rigirare il liquido in bollitura, togliendo le impurità salite a galla. E prestavano grande attenzione alla vigoria delle fiamme, che non dovevano mai portare il liquido ad una temperatura tale da provocare una bollitura eccessiva, con il rischio di cristallizzazione. L’operazione doveva procedere lentamente. E a lungo. Si doveva evitare che il mosto si attaccasse sul fondo, pregiudicando così la qualità del prodotto finale, che avrebbe assunto uno spiacevole sapore di fumo.
Il tempo necessario per ottenere la concentrazione desiderata dipendeva da vari fattori, non ultimo dal grado zuccherino delle uve. Più concentrato il mosto, più breve il tempo di bollitura. Ecco perché a Castelvenere, per la produzione del “vino cotto”, si preferivano spesso le uve agostino, oggi indicate con il nome di agostinella. Questa varietà a bacca bianca, a maturazione particolarmente precoce, era considerata quella più buona per il consumo a tavola. Ma era anche la migliore per la produzione del mosto cotto, sia per l’alto grado zuccherino che riusciva a raggiungere, sia per la morbidezza del suo gusto, dal basso tenore di acidità.
Questo frutto delizioso nei decenni scorsi ha rischiato di scomparire, facendo spazio alle varietà più produttive e a quelle autorizzate dai regolamenti e dai disciplinari. Per fortuna, l’attaccamento dei viticoltori castelveneresi alle varietà storiche ci offre ancora oggi l’opportunità di deliziarci con sapori antichi e autentici, come quello del “vino cotto” ottenuto dal mosto delle uve agostino.