Vino&Cibo

12 feb

Vino&Cibo

SCARPELLA, LA “LASAGNA” DEL CARNEVALE VENNERESE.

A Castelvenere, il paese dove sorge la ‘Vinicola del Sannio’, non è Carnevale senza Scarpella, piatto tipico recentemente riconosciuto tra i ventisei ‘Prodotti della gastronomia’ della Campania inseriti nell’Elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat). Una preparazione gastronomica dalle origini antiche, a cui ogni famiglia ha apportato piccole varianti.
Questo piatto gustosissimo unisce quattro ingredienti fondamentali: la pasta; il formaggio (primo sale di latte vaccino e pecorino stagionato da grattugia); la carne di maiale stagionata (salsiccia); l’uovo. Gli stessi elementi sono alla base del piatto italiano forse più conosciuto al mondo dopo la pizza: la Carbonara, piatto le cui origini sono fonti di discordia, anche se fortemente legato alla tavola romana. Tra le ipotesi più accreditate sulla sua genesi quella legata ai carbonari dell’Appennino, che avrebbero dato il nome a questa pasta preparata con ingredienti non deperibili. Anche la tradizione pastorale della transumanza si presta ad una ipotesi di genesi, basti pensare al “cacio e ovo” con cui si prepara l’agnello in una salsa che ricorda la fricassea medievale (usanza utilizzata anche nel Sannio).
Formaggio, uova e salumi (gli ingredienti della Scarpella) componevano la piccola dispensa dei pastori durante la transumanza, custodita nei propri tascapane.
C’è chi associa alla transumanza anche l’origine etimologica della Scarpella castelvenerese, collegando il suo nome al senso del viaggio, laddove scarpèlla potrebbe indicare il diminutivo di scarpa, dal germanico skarpa, che sta per tasca di pelle, sacca di pelle. Dallo stesso  termine germanico deriverebbe anche il provenzale escarcèlla, da cui scarsèlla, la borsa che, in alternativa al tascapane, costituiva con la bisaccia, la borraccia e il bordone il corredo caratteristico del pellegrino medievale.
Più probabile, invece, la derivazione da un altro termine germanico, skalk, che significa servo. È questo il nome con cui i Longobardi indicavano il «servitore che, nei conviti signorili, aveva l’incarico di trinciare le carni e di servirle ai commensali». Da qui deriva anche il termine scalcare, con cui si indica l’operazione di «staccare le carni dall’osso, servendosi di solito di un apposito coltello a lama sottile e appuntito». Questo richiamo alla carne potrebbe aver originato il nome di un piatto che in paese viene preparato in occasione di una festa, quella del Carnevale, che fa espressamente riferimento allo stesso termine (Carnevale: “carnes levare”, indicando il banchetto che si teneva il Martedì Grasso, subito prima del periodo di digiuno e astinenza della Quaresima). Questa ipotesi è rafforzata anche dalla combinazione con la parola “pelle”, che indicherebbe «riempire, coprire di carne». Etimologicamente la parola pelle «deriva dal latino “pellem” analogo al greco “pella-pellis” (δέρμα). Alcuni studiosi la collegano con “pel-o” (mi stendo) mentre la maggioranza vedono un legame con “pelma” (suola) ed “epi-poles” (alla superfice). La parola italiana pelle deriva dalla parola latina pellis, superficie. La voce latina deriva a sua volta dalla radice greca πάλ o πελ (riempire, coprire)» (fonte: etimo.it).

LA RICETTA
Ingredienti: 500 gr. di pasta (“perciatelli” o “mezzi ziti”) – 250 gr. di salsiccia di maiale stagionata – 300 gr. di formaggio vaccino fresco (“primo sale”) – 150 gr. di formaggio pecorino stagionato grattugiato  – 70 gr. di olio extravergine di oliva – 8/10 uova – sugna e sale q. b.
Procedimento: Lessare la pasta in abbondante acqua, poco salata. Scolata la pasta ben  al dente si condisce con  l’olio extravergine di oliva, quindi si pone in una teglia unta di sugna e si aggiungono il formaggio “primo sale” e la salsiccia tagliati a dadini, il pecorino stagionato grattugiato. Alla fine si aggiungono le uova sbattute. La ricetta tradizionale prevede la cottura posizionando la teglia sui mattoni del camino e coprendola con il “testo”, un caratteristico coperchio su cui viene posizionata brace mista a cenere. Una cottura lenta che fa sì che la Scarpella acquisisca la caratteristica croccantezza. L’alternativa cottura al forno (180°) richiede circa quaranta minuti.

La Scarpella di Castelvenere richiama alla mente il Timballo di scrippelle, piatto principe delle feste in diversi centri del teramano. Parliamo di sottili frittatine ottenute dall’impasto di uova, acqua e farina (una sorta di crepes)  che da tradizione venivano condite con sugo di carne (gallina o pollo o maiale) poi sfilacciata e aggiunta come farcitura al formaggio fresco di cagliata (“sprisciocco”) tagliato a cubetti e con una abbondante spolverata di formaggio pecorino grattugiato e infine un intingolo di latte e uova, per legare il tutto e conferire morbidezza alla preparazione. Anche in questo caso la cottura tradizionale avveniva sotto un coperchio (“coppo”) ricoperto di carboni.
L’Abruzzo rappresentava sicuramente il nodo cruciale della transumanza. Dagli altopiani del Gran Sasso per secoli, fin dall’epoca romana, partiva la grande migrazione di milioni di capi di bestiame che, guidati da migliaia e migliaia di pastori, in autunno scendevano verso le coste dell’Adriatico, ma anche verso Terra di Lavoro e la campagna laziale, per farvi ritorno nella primavera successiva, fortemente attirati dalla grande ricchezza di essenze foraggere dei pascoli abruzzesi (ancora oggi ne sono censite circa trecento). Non semplice attività produttiva, ma usanza arcaica carica di cultura, storia, tradizione, folklore e di un sapere gastronomico che ancora oggi caratterizza fortemente la cucina delle regioni della dorsale appenninica centro-meridionale.

L’abbinamento ideale della Scarpella di Castelvenere è con le etichette ‘Beneventano Barbera Igp’ della ‘Vinicola del Sannio’. Un vino prorompente di sentimenti, di gioia, di allegria, di compagnia, capace di trasmettere in un sorso l’essenza della festa.