Vino&Mito

10 apr

Vino&Mito

LAMBICCATO, IL VINO DAL SAPORE ALCHEMICO.

«45 ‘o vino bbuono»: nella smorfia napoletana, il libro-guida per interpretare i sogni e trasformarli in potenziali vincite al gioco del lotto, troviamo la casella corrispondente alla bevanda degli Dei posizionata esattamente alla metà della tabella dei novanta numeri. Il vino, il prodotto più nobile dell’agricoltura, è considerato bene particolarmente prezioso, simbolo di prosperità e amore di Dio che unisce cielo e terra. L’uva, frutto della terra, si trasforma in un liquido complesso, suggestivo, etereo e quindi «purissimo, incorporeo, celestiale». Un processo di trasformazione che simboleggia la forza del miracolo della vita, il processo alchemico e la tensione umana verso la trascendenza.
Negli anni ’60, quando prese corpo il progetto enologico oggi concretizzatosi nella ‘Vinicola del Sannio’, era particolarmente richiesto un vino chiamato “lambiccato”. Questo vino nel nome richiama fortemente l’alambicco, uno degli strumenti più utilizzati nelle pratiche d’alchimia. Tra le mura della nostra vecchia cantina si produceva una quantità particolarmente rilevante di “lambiccato”, che prendeva la strada dei popolosi centri vesuviani. All’ombra del vulcano per secoli questo prodotto ha rappresentato il dono prezioso che le personalità importanti ricevevano dalle mani dei contadini.
Questo vino delle feste in realtà non era altro che mosto in cui si interrompeva ed arrestava la fermentazione appena cominciata. «Raccolte e pigiate le uve – racconta una ricetta dell’Ottocento – pongonsi a fermentare nei tini, e tra 24 e 36 ore, quando appena è riscaldata la massa ed alzato il cappello della vendemmia, si svina e torcia la vinaccia. Il liquore così ottenuto ponsi a filtrare per sacchi di fitta tela di canapa formati a guida di cappucci di monaco, onde cappucci vengono chiamati, si che il liquido ne venga limpido e spoglio delle fecce».
Erano questi i “lambicchi”, sacchi di tela attraverso cui il liquido veniva filtrato più volte. La parte solida più fine del mosto intasava i fori delle tela, conferendo al cappuccio la funzione di alambicco, dalla cui estremità a punta usciva, goccia a goccia, il prezioso vino. Il prodotto finale era un nettare che non superava quasi mai i 5° d’alcool, con un alto residuo zuccherino.